08/10/13

Shamsia Hassani



Nei paesi martoriati dalla guerra spesso la produzione artistica subisce una battuta d’arresto, ancor di più se si tratta di paesi in cui, fino a poco tempo prima, l’arte veniva bollata come espressione dissoluta, a meno che non fosse celebrazione del potere.
Ma l’arte, proprio in questi luoghi, può diventare forza ricostruttrice per gli animi marchiati dal dolore prodotto dai conflitti, dalle ingiustizie e dalle discriminazioni. Succede questo in una Kabul distrutta da tre decenni di conflitti e devastazioni. Qui un collettivo di artisti chiamato “Rosht”, crescita, si dedica all’arte urbana ridonando speranza e veicolando messaggi attraverso le immagini.
Figura emblematica di questo collettivo è Ommolbanin Shamsia Hassani (Teheran, 1988), una giovane ragazza, oggi professore associato di scultura presso la Kabul University, che con le bombolette spray realizza graffiti tra le macerie e i ruderi della città. La passione della Hassani per il graffito nacque in occasione di un workshop dedicato alla street – art  tenuto dall’artista britannico Chu nel 2010 proprio a Kabul. Prima di allora la parola “graffiti” era pressoché sconosciuta in Afghanistan e la stessa artista concepiva la pittura su tela come la sola arte possibile. Ma, nonostante le difficoltà iniziali, la bomboletta spray è ben presto diventata il mezzo ideale per liberare i propri pensieri e produrre un’arte per tutti, in particolar modo per una comunità in cui la percentuale di individui privi di istruzione è altissima e l’arte tradizionale diventa un lusso, o comunque un disciplina propria degli occidentali e quindi vista con circospezione.
Oggetto di riflessione per la Hassani è il ruolo della donna nella società afghana perché, secondo lei, l’artista deve porsi come interprete della propria cultura, che è a sua volta elemento rappresentante una nazione, e l’arte fa parte di essa. La donna afghana viene però vista in maniera moderna, liberata dai soliti cliché.  Il burqa, elemento che prepotentemente caratterizza le donne di quella nazione, lascia trasparire le forme del corpo femminile. Emblematico è il graffito da lei realizzato in occasione del workshop del 2010, nonché suo prima opera di grandi dimensioni, che raffigura sei donne afghane coperte dal burqa azzurro che nascono dalle acque, quasi a voler richiamare il mito di Venere che nacque dalla spuma delle onde del mare. Per la Hassani l’acqua è da sempre associata alla pulizia e, attraverso quest’opera murale, vuole provare che le donne sono “pulite”. L’artista si fa quindi interprete del desiderio di emancipazione delle donne in una società che le relega ad un ruolo marginale e le mortifica ogni giorno in nome di una legge che nel tempo è stata traviata e travisata.
Attraverso la figura della donna, la Hassani conduce ad una riflessione più ampia sulla guerra e le sue conseguenze. Presso l’antico centro culturale russo di Kabul l’artista ha realizzato un altro graffito raffigurante una donna in burqa seduta su una scala che sembra condurre verso il nulla e vicino c’è la strofa di una poesia che recita “un flusso d’acqua può tornare ad essere un fiume anche se i pesci sono tutti i morti. Non vi è alcun ritorno per i defunti”. Il riferimento alla situazione afghana è chiaro. La guerra ha portato via tante vite umane e, anche se l’Afghanistan adesso può ricominciare a vivere, esse non torneranno mai più.
Il lavoro di Ommolbanin Shamsia Hassani non si limita solo al graffito. Nel 2009 ha vinto il primo premio del concorso indetto dall’associazione Freedom to Create con l’opera “From Sound to Image”. Si tratta di un collage che suggerisce una sorta di accusa verso le false promesse di coloro che si presentano come portatori di salvezza. Esso si divide in due settori, nel primo si vede la linea tondeggiante di un volto, di cui spicca la bocca rossa, circondato da microfoni e da una serie di bolle colorate; l’altro settore è occupato da foto in bianco e nero di volti di donne, uomini e bambini alterati dalla disperazione del pianto. Il primo settore rappresenta le belle promesse (simboleggiate dalle bolle colorate) dei falsi salvatori della società martirizzata dalla guerra, il secondo settore non è però raggiunto da queste promesse e ci mostra la gente, senza colore, che continua a soffrire.

(Articolo pubblicato su Franznews)




03/10/13

Alicia Martin. Il libro e lo spazio

“Da tante cose dipende la celebrità de’ libri”  diceva Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi.  I libri sono veicoli di cultura attraverso la parola scritta, imprescindibili strumenti di crescita, a volte nemici, altre volte compagni di viaggio, scandiscono le fasi della nostra vita in maniera più o meno costante. Il connubio libri/arte sembra esistere da sempre, almeno da quando i miniatori medievali decoravano i manoscritti con maestria e minuzia, tanto che oggi assistiamo al proliferare dei cosiddetti libri d’artista, libri che sono essi stessi opera d’arte, non da leggere ma da osservare.
Ma se il libro, in quanto massa fisica, diventasse soggetto o parte costituente un’opera d’arte? Possibile. Ce lo dimostra l’artista madrilena Alicia Martìn (1964) che crea opere ed installazioni site – specific utilizzando proprio i libri come elemento caratterizzante.
La ricerca dell’artista si articola su più fronti. Il libro diventa soggetto, per l’appunto, di un’opera, come nel caso della serie Monologos (2007) in cui vediamo due mani che strappano un libro come a voler simboleggiare il disfacimento contemporaneo della cultura scritta in favore della assuefacente dittatura delle immagini. Nel video Poliglotas (2003), invece, i libri svolazzando all’interno di un labirinto straniante, creando un disordine visivo che ci rimanda nuovamente al caos contemporaneo, in cui le informazioni si assommano, si ingarbugliano e si confondono nella miriade di canali che le trasportano verso l’utente.
Ma il libro diventa anche elemento compositivo di installazioni che, in egual misura,  invadono spazi chiusi o spazi aperti. Nel primo caso, abbiamo esempi di installazione site – specific in uno spazio chiuso al MUSAC di Leòn, luogo in cui l’artista ha realizzato un’opera, intitolata Contempòraneos (2000), in cui vediamo una cascata di libri apparire da uno spazio aperto tra due pareti quasi squarciate dal peso della loro massa, oppure alla Galleria Galica di Milano, sede dell’installazione Inbreeding (2007), in cui una parete è occupata da una quantità di testi che sembrano venir giù direttamente dal soffitto e quasi investire lo spettatore.
Sicuramente più scenografiche e d’impatto sono le installazioni all’aperto che propongono getti a cascata di libri che fuoriscono da finestre o pareti di palazzi o immobili di vario tipo. Esempi interessanti sono l’opera intitolata Biografias (2007), realizzata presso la Casa de America a Madrid, Meteoro (2007)  al Museo Naval di Cartagena (Colombia) o ancora un’altra installazione della serie Biografias realizzata nel 2009 presso Molino de San Antonio a Cordoba o, infine, l’installazione creata a Le Hague (Olanda), presso il Museum Meermanno, in occasione della Paper Biennial Rijswijk 2012. 
Alicia Martìn utilizza il libro in quanto “cosa”, infatti, quello che conta non sono i titoli, i contenuti, le storie, bensì la forma, la struttura, l’insieme di copertine e pagine che invadono gli spazi in maniera energica, mai violenta, e portano lo spettatore a riflettere sul loro valore intrinseco generato dalla privazione della possibilità di fruire il libro secondo il suo uso naturale, scontato. È cultura che va al macero? Piuttosto è cultura che incontra altra cultura in maniera non incidentale, è arte che invade lo spazio della letteratura e vice versa. Si tratta di una profonda riflessione sul ruolo e sul valore della lettura oggi, riflessione che nasce più prepotentemente dal disordine e non dall’ordine delle librerie e delle biblioteche.

(Articolo pubblicato su Franznews)
Poliglotas, 2003

Monologos, 2007

Inbreeding, 2007

Contemporaneos, 2007 
Biografias, 2007






02/10/13

Andy Warhol e Napoli

Amo Napoli perché mi ricorda New York, specialmente per i tanti travestiti e per i rifiuti per strada. Come New York è una città che cade a pezzi, e nonostante tutto la gente è felice come quella di New York.



Andy Warhol, Vesuvius, 1985

Andy Warhol, Vesuvius, 1985